La normativa sul transfer pricing “estero” non si applica alle transazioni tra società appartenenti allo stesso gruppo e residenti in Italia.
Che cosa è il transfer pricing?
È il meccanismo attraverso cui, nell’ambito di gruppi di società, sono stabiliti i prezzi di vendita di beni e servizi. Se questi non corrispondono al valore di mercato, si può verificare lo spostamento del reddito da una società a un’altra (e, se una non è residente, da un Paese a un altro), in base alla convenienza fiscale del gruppo. Perciò l’articolo 110, comma 7, del Tuir (per il transfer pricing «estero») e la Cassazione (per quello «interno») hanno stabilito che il corrispettivo si presume conseguito, ai fini fiscali, in misura pari al valore normale dei beni e dei servizi, come solitamente avviene per le transazioni analoghe tra imprese indipendenti.
Quando la congruità dei corrispettivi non è rispettata?
La congruità dei corrispettivi può essere sindacata dagli uffici delle Entrate, pur nel rispetto delle valutazioni di strategia commerciale riservate all’imprenditore. In particolare, secondo i giudici della Cassazione le spese relative alle transazioni nazionali infragruppo non sono deducibili quando si verificano queste circostanze:
– il contratto è “laconico”;
– la descrizione in fattura è generica;
– non è stata tratta un’effettiva utilità dall’operazione, che risulta finalizzata soltanto a ridurre il carico fiscale del gruppo.
Le società residenti, perciò, devono tenere conto di questi principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità prima di effettuare operazioni intercompany nazionali.
Il quadro normativo
L’inapplicabilità della disciplina del transfer pricing “estero” è stata affermata dall’Agenzia nella circolare 53/E/1999 e dalla Suprema corte (sentenze 10802/2002 e 23551/2012). La stessa Cassazione, però, ha sostenuto che questa disciplina «costituisce una clausola antielusiva immanente» basata sui principi dell’abuso del diritto e del valore normale di cui all’articolo 9 del Tuir. Articolo, quest’ultimo, che costituirebbe a sua volta una «clausola antielusiva di diritto interno» (sentenze 17955/2013, 8849, 12502 e 23124/2014).
Spese di regia e consulenze
Le contestazioni più frequenti riguardano le cosiddette spese “di regia”, o management fees, e quelle per consulenze sostenute a favore di altre consociate. Nella circolare 271 del 1997 è stata riconosciuta la deducibilità delle spese “di regia” al verificarsi dei requisiti di certezza, inerenza e congruità. La Corte di cassazione ha ritenuto tali spese inerenti se la società che beneficia dei servizi è priva di strutture idonee al riguardo (sentenze 6532/2009 e 4510/2013).
Nella sentenza 21184/2014 è stato affermato che le spese sostenute per remunerare l’attività di consulenza svolta dalla capogruppo non sono deducibili, in quanto non inerenti, se il contratto di assistenza tecnico-commerciale è laconico («appena 10 righe»), la descrizione in fattura è generica (consulenza tecnico-commerciale relativa al mese…) e il costo dedotto è «ingente»(408.090,92 euro). La indeducibilità dei costi risultanti da fatture generiche è stata sancita anche nelle sentenze 20054 e 22403/2014 e 7214/2015.
Consigliamo, al fine di prevenire le contestazioni o di approntare un’idonea difesa dalle stesse, redigere contratti intercompany nei quali risultino descritti in modo dettagliato i servizi resi e i criteri adottati per la determinazione del corrispettivo e predisporre la documentazione idonea a provare l’effettiva erogazione delle prestazioni e l’utilità arrecata dalle stesse.
Lo Studio Azzini Zagni | Avvocato e Commercialista Cremona, Milano, Brescia, Piacenza, Lodi è specializzato nella gestione e nella consulenza di gruppi societari, sia italiani che multinazionali.